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Prof. Rocco Damiano Direttore della Unità Operativa di Urologia, Università Magna Graecia di Catanzaro Azienda Ospedaliera Mater Domini

Le infezioni delle vie urinarie rappresentano un serio problema di salute con alti costi per la società. Nelle donne sono comunemente trattate con antibioticoterapia prolungata. Gli effetti avversi e la crescente antibioticoresistenza richiedono un cambio di strategia preventiva.
Oggi è importante che i Medici di Medicina Generale e i diversi specialisti coinvolti siano a conoscenza che questo innovativo trattamento rappresenta un nuovo paradigma per trattare, con una strategia priva di antibiotici, una patologia ricorrente con un forte impatto negativo sulla qualità di vita delle pazienti.


LE INFEZIONI URINARIE NELLA DONNA:
Evidenze cliniche un nuovo paradigma di trattamento

Estrapolare dati accurati circa la reale incidenza delle infezioni delle vie urinarie (IVU) è alquanto difficile dato il riscontro comune della patologia. Tuttavia si stima che esse rappresentino oggi una delle patologie infettive più frequenti nelle donne, con un rischio tre volte superiore nei confronti degli uomini nel contrarre questa malattia. Una donna su tre avrà avuto almeno un episodio di IVU prima dei suoi ventiquattro anni, ed almeno la metà delle donne soffrirà di un IVU nel corso della loro vita .
Un altro serio problema è la ricorrenza di questa condizione nelle giovani donne: infatti, nel 25% dei casi le infezioni ricorrono entro sei mesi dal primo episodio.
Le IVU ricorrenti sono definite dalla presenza di sintomi urinari irritativi, quali elevata frequenza minzionale, urgenza o disuria, e dal riscontro di almeno tre urinocolture positive (>103 colonie/ml di urina) durante gli ultimi 12 mesi. Più del 5% delle donne saranno affette, nel corso della propria vita.
Esistono fattori di rischio generici quali diabete o immunodeficienze in grado di aumentarne il rischio, ma soprattutto specifiche condizioni che possono facilitarne l’insorgenza. Tra il 75% e il 90% di episodi di cistite in giovani donne sessualmente attive sono correlabili con i rapporti sessuali ed uso di creme spermicide oppure all’impiego del diaframma anticoncezionale (1). Anche le alterazioni dell’alvo possono essere considerate un fattore di rischio , facilitando un circolo entero-urinario dei batteri stessi.

Nelle donne in menopausa, i rapporti sessuali non sembrano più rappresentare un fattore di rischio mentre una storia di infezioni urinarie in giovane età risulta il più consistente fattore di rischio epidemiologico.
Circa l’80% delle cistiti sono sostenute da E. Coli grazie a particolari fattori di virulenza come la presenza di fimbrie che, facilitando l’adesività alla mucosa delle vie urinarie, ne aumentano la capacità infettiva.
Le linee guida della Società Europea di Urologia (EAU Guidelines 2014) sottolineano come la cistite possa essere diagnosticata con alta probabilità in presenza di sintomatologia irritativa delle basse vie urinarie (disuria, aumento della frequenza urinaria ed urgenza minzionale) in assenza di segni di flogosi vaginale. L’infezione può inoltre associarsi a macroematuria o a un peggioramento dell’incontinenza urinaria nelle pazienti che ne sono affette.
Il quadro sintomatologico descritto è così caratteristico che le donne con una storia di cistiti ricorrenti riescono a fare autodiagnosi con un’accuratezza del 90% .

La conferma di laboratorio avviene mediante il riscontro di una conta batterica ≥ 103 cfu/ml di uropatogeni sull’ urinocoltura in donne sintomatiche. Sebbene il dipstick urinario possa essere rappresentare una valida alternativa all’esame culturale delle urine nelle infezioni non complicate, questo si rende doveroso in caso di sospetta pielonefrite (dolore al fianco, nausea, vomito e febbre>38°), mancata risoluzione o ricorrenza (dopo 2-4 settimane) dei sintomi alla conclusione del trattamento. In questi casi è inoltre indicato un approfondimento diagnostico specialistico mediante valutazione ecografica del residuo post-minzionale ed ecografia apparato urinario.

Gli antibiotici sono generalmente prescritti con la finalità di una rapida risoluzione dei sintomi, di solito per un periodo di sette giorni. Quando possibile, il trattamento dovrebbe essere guidato dai risultati dell’urinocoltura e antibiogramma, per evitare di indurre ceppi resistenti.
Tuttavia in caso di cistite ricorrente, un antibiotico profilassi per sei mesi consecutivi è indicata dalle linee guida europee come possibile opzione terapeutica quando le modifiche comportamentali (regolarizzazione dell’alvo ed alimentazione ricca di fibre, bere almeno due litri di acqua al giorno) e l’utilizzo di fitoterapici (quali estratti di cranberry, acidificanti urinari o probiotici) siano risultati inefficaci nel prevenire gli episodi di infezione ricorrente.
In accordo ad una revisione della letteratura effettuata dalla Cochrane, la somministrazione continua di una bassa dose di antibiotici risulta efficace nel prevenire le IVU ricorrenti, con una riduzione del rischio di ricorrenza clinica per paziente/anno fino a 0,15 (RR), mentre presenta un rischio elevato fino a 1.58 (RR) di effetti collaterali severi che richiedono la sospensione del trattamento.
Inoltre, sebben efficaci nel ridurre le ricorrenze, l’effetto degli antibiotici si manifesta esclusivamente durante il periodo di assunzione. Alla discontinuazione della profilassi le pazienti ritornano alla loro precedente frequenza di IVU con un rischio di ricorrenza microbiologica pari allo 0,82 (RR), non essendo la profilassi antibiotica in grado di modificare la storia naturale delle IVU ricorrenti.

Continuare l’antibiotico terapia per periodi molto lunghi è molto rischioso, non abbiamo dati di sicurezza su antibioticoterapia a lungo termine mentre vi e’ la possibilità di severi eventi avversi ed infezioni da batteri resistenti agli antibiotici.
Inoltre l’uso prolungato di antibiotici non è privo di complicanze poiché interferisce con la contraccezione orale, causa sintomi gastrointestinali, tra cui un incremento del rischio di diarrea da clostridium difficile, e determina episodi di candidosi, oltre che favorire la comparsa di un’antibioticoresistenza.
In Italia, infatti, come nel resto dell’Europa, si sta assistendo ad un aumento dei ceppi di E. Coli chinolonici resistenti.
Questo trattamento “inappropriato” compromette la qualità di vita delle pazienti.

Le IVU hanno un effetto negativo sulla sfera sessuale femminile. In pazienti con elevata ricorrenza di IVU, specialmente se in età premenopausale e se affette da IVU da E Coli, si riscontrano più frequentemente dolore sessuale e sintomi come la vulvodinia e vestibulodinia.
Inoltre le IVU ricorrenti determinano col tempo sintomi da vescica iperattiva.
Donne che hanno avuto almeno tre episodi di IVU nell’ultimo anno sono più a rischio di sviluppare nel tempo sintomi riferiti al basso tratto urinario anche in assenza d’infezione in corso.
Lo sviluppo crescente di microorganismi sempre più resistenti, associato a una possibile scarsa compliance del paziente dovuta all’insorgenza di effetti collaterali, ha portato a un crescente interesse per nuove strategie non chemioterapiche da adoperarsi nella prevenzione delle infezioni ricorrenti. Numerose evidenze scientifiche testimoniano come i batteri, aderendo all’urotelio, sono in grado di stimolare recettori locali che inducono la secrezione di citochine, richiamano cellule infiammatorie determinando un’infiammazione tissutale sotto l’urotelio e i conseguenti segni e sintomi delle IVU. E’ oggi chiaro che tutta la sintomatologia correlata all’IVU non è determinata dalla presenza dei batteri nelle urine ma dall’infiammazione che i batteri stessi inducono sulle pareti vescicali.

La parete della vescica e’ composta da tre principali strutture: il muscolo detrusore, il sottourotelio e l’urotelio, rivestito da uno strato mucoso, importante nella permeabilità cellulare e composto da un uniforme mantello di glicosaminoglicani (GAGs) e di proteoglicani che ricoprono la superficie dell’urotelio. Nella patogenesi delle cistiti batteriche i GAGs svolgono differenti funzioni trattenendo acqua e inibendo il contatto tra batteri e urotelio. Recenti studi, per esempio hanno identificato in E. Coli, microorganismo riscontrabile nel 75%-90% dei casi di cistiti, fattori solubili in grado di danneggiare lo strato di glicosaminoglicani e quindi di facilitarne il contagio cellulare.
L’applicazione esogena di GAGs, aderendo alla barriera mucosa danneggiata e inibendo l’adesività batterica, ripara la normale impermeabilità vescicale. L’integrità dello strato di GAGs e’ quindi fondamentale nel mantenere l’urotelio nelle sue funzionalità.

Negli ultimi anni in letteratura sono riportati numerosi studi clinici che validano l’implementazione esogena di glicosaminoglicani come terapia nelle IVU ricorrenti. Evidenziando una significativa riduzione del numero di episodi di IVU ed un prolungamento dell’intervallo temporale tra gli episodi di IVU unitamente ad un miglioramento dei sintomi urinari e della qualità di vita, in assenza di significativi eventi avversi. Tali studi hanno anche evidenziato come i migliori risultati dopo la terapia con HA-CS sono da attendersi in pazienti con età < 50 anni, con numero di episodi di IVU/anno < 4, con BMI nella norma ed anamnesi alvina regolare.

In conclusione, il frequente riscontro di cistite urinaria nelle donne richiede spesso un uso ripetuto di antibiotici. Sebbene l’utilizzo degli antibiotici sia stato indicato come possibile scelta terapeutica valida per prevenire l’insorgenza dell’infezione, questo è gravato da un elevato rischio di effetti collaterali e dalla possibilità di indurre e aumentare lo sviluppo di microorganismi antibiotico-resistenti.
Questa paradossale azione antibiotica indica pertanto di ricercare nuove strategie di profilassi. A oggi, una crescente quantità di studi clinici e sperimentali ha proposto come valida scelta l’utilizzo dei glicosaminoglicani, dimostrando almeno un potenziale ruolo benefico di queste sostanze nella patogenesi delle infezioni. Nonostante non si possano ancora trarre delle definitive indicazioni su queste sostanze, il loro impiego nella pratica clinica per la prevenzione delle cistiti urinarie sembra comunque supportato da un razionale fisiologico, da dati clinici di provata evidenza e dall’assenza d’importanti effetti collaterali.